La crisi dei partiti mina l’amministrazione
Emerge un dato molto
empirico, evidente, vale a dire, all’epoca, la compattezza interna ai singoli
partiti, quelli, per intenderci, della cosiddetta prima repubblica, con i loro
statuti, il collante dell’ideologia, la struttura collaudata, gli specifici
interessi da tutelare, il richiamo a parole d’ordine di facile presa sui
militanti e sull’elettorato. E poi c’erano i probi viri, quelli che
implacabilmente intervenivano a rimuovere fatti, sempre isolati, che, a torto o
a ragione, erano intesi quali menomazioni, fosse solo dell’immagine, a danno
della sezione locale (si pensi alla vicenda che vide protagonista Sante
Petrocelli, Pci). Il partito, quindi, “teneva”, raramente si assisteva a cambi
di casacca e l’azione amministrativa era concentrata sul da farsi, non, come
siamo abituati oggi, sul recupero dei fuoriusciti che ti fanno venir meno la
maggioranza.
Eppure, anche allora
non mancavano rivolgimenti. Per noi bambini (siamo nei primi anni Sessanta), la
Domus Pacis coincideva col nostro
asilo, dove, muniti di cestino, tipo Cappuccetto Rosso (non esistevano gli
zainetti), andavamo a giocare con le maestre. Non potevamo ovviamente percepire
come don Felice Piccirilli, parroco
di San Giuseppe, avesse avviato, con quella struttura, un qualcosa destinato a
rimanere nel tempo. In quell’ambiente, così ricco di fermenti, si sviluppa un
laboratorio politico che porterà alla formazione della lista “Il Faro”. Questo particolare momento
della nostra storia è analizzato molto bene da Costantino Felice nella sua ultima fatica “Vasto – Storia di una città” (Donzelli editore), un’opera a
beneficio di chi voglia individuare la trama dei fatti.
Nasce quindi “Il Faro”,
per la verità non semplice lista civica, ma anche movimento civico, con a capo
“don” Silvio Ciccarone: la Dc, da
cui provenivano i nuovi protagonisti della vita politica cittadina (anche se,
va aggiunto, Ciccarone non era iscritto al partito), pagava la sua incapacità
di interpretare le istanze di un tessuto sociale che passava dal mondo agricolo
a quello industriale. Di più, c’era una forte istanza di carattere morale, sulla
quale bisognerebbe riflettere, che imputava al partito cattolico un deficit
etico proprio in riferimento alla dottrina cristiana. D’altra parte, il parroco
di San Giuseppe “era scontento di come andavano le cose” riferisce Felice (op.
cit.) riportando le parole di don Silvio. Non possiamo dagli torto. Anche
oggi.
Giacinto Zappacosta
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