Mentre Gaeta diveniva una prigione, altre due fortezze
borboniche continuarono le ostilità: Messina, che avrebbe ammainato la bandiera
biancogigliata (ma senza consegnarla) il 20 marzo. Per i combattenti si
aprirono varie strade: darsi al brigantaggio e cercare di restaurare con la
guerriglia quel regno che non erano stati capaci di difendere con la guerra regolare;
passare al nemico oppure affrontare la carcerazione, magari nel forte di
Fenestrelle, praticamente un gulag, per le condizioni terribili in cui i
prigionieri venivano tenuti. Almeno 24.000 deportati borbonici (ma si parla di
40.000) vennero trattati come bestie: senza pagliericci, senza coperte, senza
luce; addirittura, in una zona dove la temperatura d’inverno era quasi sempre
sotto lo zero, vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare i
prigionieri col freddo. La liberazione avveniva perlopiù con la morte e, non
sapendo dove seppellire il gran numero di deceduti, si procedeva a
discioglierli nella calce viva in una grande vasca: una morte senza onore,
senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei
misfatti compiuti. Non a caso si è parlato dei “lager dei Savoia”: del resto,
una scritta accoglieva i prigionieri ammonendo “Ognuno vale non in quanto è, ma
in quanto produce” (in tedesco suonerebbe “Arbeit macht frei”).
Luigi Vinciguerra
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